UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLA FAMIGLIA
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

La Fecondità di Familiaris Consortio

Ass. Comunità Papa Giovanni XXIIICasa famiglia “Fuori le Mura” - AssisiLuca e Laura Russo Fecondità e vita comunitaria Poco tempo fa,  nel piazzale della nostra casa famiglia, dopo aver raccontato il carisma della Comunità Papa Giovanni XXIII e di don Oreste Benzi a due seminaristi, uno di loro mi dice: “Luca, tu e Laura siete sposati da 13 anni, […]
26 Novembre 2011
Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII
Casa famiglia “Fuori le Mura” - Assisi
Luca e Laura Russo
 
Fecondità e vita comunitaria
 
Poco tempo fa,  nel piazzale della nostra casa famiglia, dopo aver raccontato il carisma della Comunità Papa Giovanni XXIII e di don Oreste Benzi a due seminaristi, uno di loro mi dice: “Luca, tu e Laura siete sposati da 13 anni, avete 2 figli naturali, 5 bambini in affidamento, vivete con Azeglio, in carrozzina a seguito di un incidente stradale all’età di 16 anni e arrivato nella vostra famiglia dopo 6 anni di ospedale perché non c’erano famiglie disponibili ad accoglierlo, ma solo ospizi per anziani a lungo degenza; vivete con Federico, cieco dalla nascita inserito in un istituto per ciechi dove è rimasto per 15 anni dopodiché è stato accolto nella vostra casa, un signore di 60 anni che ha finito di espiare a casa vostra una pena alternativa al carcere dopo tanti e tanti anni di reclusione, siete sempre 12/13 persone in casa ogni giorno, 24/24h…ma come fate a trovare tempo per il vostro sacramento? Come riuscite a vivere il vostro matrimonio?”
E l’altro seminarista, prima che io riuscissi a prendere la parola, mi anticipa e risponde: “Ma è questo il loro matrimonio!”
E’ davvero così, è questo il nostro matrimonio; ci nutriamo dimorando nella carità, cambiando i pannolini ai piccolini, lavando chi non riesce a lavarsi da solo; diamo il braccio a chi non vede, spesso portiamo in braccio chi non cammina e forse non riuscirà a camminare mai; portiamo in ospedale chi mensilmente deve fare i controlli medici, rallentiamo il passo delle nostre speranze con quei figli che sono più indietro degli altri, perché ancora feriti da un abbandono incomprensibile e che rallenta la crescita umana. Abbiamo raccontato, e ancora tante volte dovremo raccontare, che ci sono figli della pancia e figli del cuore e che le storie di ciascuno sono diverse, ma noi amiamo tutti con tutto il cuore e ciò che conta è che alla sera ogni bimbo possa dire “buonanotte papà”, “buonanotte mamma” e molti dei nostri figli non sempre hanno avuto questa possibilità.
Nella storia della nostra vita di comunità abbiamo capito che essere casa famiglia significa superare l’avverbio “soltanto”.
12 anni fa circa, non avevamo ancora figli naturali ed avendo già in affido alcuni minori, tra cui una bambina di 8 anni, dopo aver saputo che Laura era incinta, questa bambina era diventata più ribelle e irrequieta che mai, mettendo in atto dinamiche relazionali oppositive e conflittuali nei nostri confronti diventando davvero ingestibile. Una domenica mattina, mentre l’accompagnavo all’incontro degli scouts si apre un dialogo inaspettato, un vero saggio di alta teologia,  per cui le chiedo come mai fosse così nervosa in quei giorni, cosa le stava succedendo per essere sempre così ribelle e arrabbiata, e lei rispose: “Papà, vuoi che te lo dica? Sta nascendo il vostro erede al trono, il vostro primogenito; io d’altronde sono soltanto in affidamento”.
Ci siamo resi conto che ci sono figli “soltanto”, che ci sono vite “soltanto”, come se la propria storia di dolore, la sofferenza di essere abbandonati dai genitori, renda la propria vita una vita minore, inutile, una vita che non regge al paragone con la vita di nessun altro.
L’abbandono impedisce a chiunque di riconoscere la propria vita come degna di essere vissuta. Non c’è più bellezza ne’ felicità per chi resta senza papà e mamma, improvvisamente si apre una ferita che per molti non basterà una vita per cicatrizzare. Solo Cristo potrà curare quel dolore, solo Lui guarirà quella ferita.
E allora noi stiamo a dire che superare l’avverbio soltanto significa che non ci sono “vite soltanto” e che nessun figlio è perso.
 
Noi non siamo operatori, assistenti, educatori, ma profondamente famiglia. Assolutamente papà e totalmente mamma.
Abbiamo concepito il nostro matrimonio come una “Fontana di piazza”, chi ha sete venga! E la fecondità del nostro amore non è un calcolo più o meno approssimativo della genetica dei nostri corpi, ma frutto della Grazia di un sacramento, che pervade le nostre persone e a cui non possiamo resistere. La fecondità ci supera e ancora una volta, quasi a ripetere la potenza di quel vento leggero che travolse la docilità del Sì di Maria rendendola gravida del suo stesso Dio, così, ancora oggi, è il nostro Sì che basta. La docilità del nostro cuore basta allo Spirito per renderci fecondi dei figli che Dio vorrà donarci e non di quelli che noi vorremmo calcolare. Ancora oggi “Dio provvede”.
Per chiunque passi, grandi e piccoli, detenuti a bambini, psichiatrici e prostitute, vogliamo essere un cuore dove piantare radici.
 
“Ci sono persone che, per motivi diversi, sono rimaste sole al mondo. Eppure per tutti costoro esiste un «buon annunzio della famiglia»”, recita la Familiaris Consortio. Noi tutti vogliamo essere il buon annunzio della famiglia e c’è un mondo di vita debole e calpestata che cerca famiglia. Non c’è vita che non abbia diritto alla famiglia, non c’è bambino che non possa essere figlio.
La vita cerca famiglia! Perché non ci siano più “Figli soltanto”, ma “Figli e basta”
“Hai un matrimonio da darmi?”, questa è la pressante e dolorosa domanda dell’infanzia ferita e dimenticata.
“Senza mamma e papà io non cresco!” questa è la croce che vogliamo portare insieme ai piccoli che il Signore ci ha affidati. Una croce troppo pesante per le spalle troppo piccole di tante creature.
 
Laura
Anche la vita che molti vorrebbero non fosse vita cerca famiglia. Come la vita di un nostro bimbo di 8 anni, tracheostomizzato, alimentato via PEG, spesso legato in carrozzina ai piedi, bacino e spalle, aiutato in molte ore del giorno a respirare con l’aiuto delle macchine e che ha trascorso i suoi primi 4 anni di vita in ospedale da solo, con la cura del personale ospedaliero, tante visite, molte medicine, ma solo.
 
Quando abbiamo conosciuto la prima volta il nostro piccolo, nel viaggio di ritorno con Luca, mentre ci raccontavamo le emozioni e le paure di quel primo incontro, così unico e sconvolgente per aver visto la meraviglia di un bimbo malato che lottava ogni giorno per la vita e che si trovava solo, senza una mamma e un papà, in un reparto a lungo degenza per bambini in una struttura ospedaliera specializzata, ci siamo resi conto che dietro la nuca non aveva capelli e che in quel punto la pelle era sensibile e delicatissima e solo dopo un po’ di tempo ci siamo accorti che in quel punto quel bimbo non aveva capelli perché era sempre a letto, oscillando la testa a destra e sinistra, strofinandola continuamente sul cuscino. Oggi il nostro bimbo ha i capelli anche sulla nuca, perché ha una mamma e un papà che lo prendono in braccio, che fermano le innumerevoli corse di una giornata e di una famiglia di 12 persone per fare le coccole e cantare le canzoni dello Zecchino.
E’ emerso chiaramente in noi il quesito: quali sono i parametri vitali che utilizziamo per segnare la qualità della vita? Quali riferimenti sono indispensabili: solo le macchine necessarie a far respirare nostro figlio? I movimenti liberi e intenzionali del suo corpo? Se sorride, piange, risponde? Questo nostro figlio non ha mai pianto, ne’ parlato, ne’ mai sorriso in nessuno di questi 8 anni di vita e se nessuno avesse mai provato a cantare una canzoncina lui sarebbe sembrato spesso assente, addormentato e tutti avremmo nutrito dubbi sul suo stato di coscienza. Eppure noi gli abbiamo cantato “Il pulcino ballerino” e lui si è svegliato e le canzoncine le vuole ascoltare anche con la respirazione assistita.
 
La qualità della sua vita non si può fondare solo sull’analisi clinica della salute del suo corpo, ma sulla relazione d’amore di chi siede affianco al suo lettino.
E se è vero che l’esistenza umana è segnata dalla misura in cui ci si lascia amare, la piccola vita di questo nostro bambino è così piena d’amore che nulla porterebbe mai a pensare che, pur nello strazio della sua debolezza, la sua vita meriti l’ipocrisia del pietismo di chi sceglierebbe di staccare la spina, piuttosto che la dignità di dare ogni giorno acqua e amore.

La qualità della vita dei deboli è la responsabilità dei forti che scelgono di vivere accanto a loro.
E se fosse sempre cosi, ogni esistenza umana avrebbe una qualità di vita così alta da essere non solo degna di essere vissuta, ma davvero meravigliosa, pur nella sua drammatica e dolorosa fragilità.
 
Non sono vite inutili, né sprecate, ma sono chiamate alla vocazione più alta che si possa pensare, e cioè a redimere le vite sbandate che non trovano più il coraggio di fare il male quando incontrano la grandezza del bene di una creatura crocifissa e innocente. Viviamo in casa con uomini che hanno scontato 20, 30 anni di galera e li abbiamo visti convertiti dalla tenerezza della nostra piccola creatura, abbiamo visto mani rugose, tatuate, con le dita monche e sfregiate, segnate da una storia di violenza e di rabbia che maldestramente diventano docili in ogni carezza sulle guance liscissime di nostro figlio. Viviamo con ragazze che hanno battuto la strada, costrette a prostituirsi da un racket violento e che ora sono salve e che piangono di fronte al candore dei giorni di vita del nostro piccolo. Quale vocazione più alta crediamo noi di assolvere con le nostre vite forti e incrollabili? Potremo mai credere che la nostra forza riesca a convertire i cuori induriti, i popoli dalla dura cervice, i potenti della terra? E’ proprio vero, le membra più deboli, sono le più necessarie.
Allora ha ragione il seminarista: “Questo è il loro matrimonio!”.  Don Oreste Benzi, fondatore della nostra Comunità, ci chiedeva di rigenerare i figli nell’amore, perché non fossero condannati alla solitudine e all’abbandono, ma abbracciati da quell’amore gratuito che ci rende così intimi che ci fa familiari. Ci apparteniamo non per vincoli di sangue, ma in virtù di un amore senza barriere. Nelle nostre case famiglia diventiamo madre e padre, fratello e sorella di quanti sono in condizioni disperate, di quelli a cui nessuno pensa e di cui nessuno effettivamente s’innamora.
Così il forte si prende cura del debole, il detenuto si converte imboccando il cibo  a chi non può mangiare da solo, il grande si fa piccolo e il piccolo si confonde con il grande… E Il nostro matrimonio diventa come quella croce di Cristo: raccoglie i dolori del mondo, genera una vita redenta.
 
Luca Russo e Laura Chiappa
Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII

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